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La RTS sul campo
Per un altro anno andai avanti così, con la macchina e col 50/1.4. Un obiettivo veramente ottimo, uno dei migliori 50mm avuto, e non privo di blasone anche lui, a partire dal nome altamente evocativo di planeità di campo, correzione ottica, Planar. Il miglior 50/1.4 in circolazione, a parte il Summilux Leica, forse, ma che costava anche 10 volte quello che avevo pagato io. Leggermente morbido, a tutta apertura. Come tutti i 50/1.4 del tempo (Leitz compreso). Ma già chiuso di un solo diaframma la qualità si impennava. A 2.8 poi era già al top. Colori bellissimi. Nitidezza tostissima. Tutto il resto sotto controllo. Ci fotografavo tutto. Panorami, scene familiari, fidanzata, nipoti, amiche, scene urbane etc. Erano già 2 anni e mezzo che usavo solo il 50mm. Affrontavo la fotografia con molto impegno. Il mio studio era rivolto a capire quali fossero le mie vere esigenze e cosa volessi davvero fotografare. Le uniche foto che non mi convincevano erano i ritratti molto ravvicinati, dal mezzo busto in su, che peraltro mi piaceva molto fare. L’ottica normale in questo caso introduceva nel volto piccole deformazioni che modificavano l’espressione dei soggetti, e non mi piacevano. Dopo 2 anni e mezzo di solo 50mm, decisi che era tempo di sfruttare l’intercambiabilità delle ottiche consentita dalle reflex.
Dovevo prendere un teleobiettivo moderato che, con una leggera compressione dei piani, avrebbe permesso di rendere più naturali i volti. Mi sarebbe piaciuto un 85mm. Ma c’era poco da scialare, con le finanze del tempo. Nessun modello Yashica, per cominciare. Troppo costosi gli Zeiss, tutti made in Germany. Già caro il modello f2.8, inavvicinabile l’f1.4. Le alternative erano poche. L’unico obiettivo che potevo permettermi era il più economico, il 135mm. Avevo 2 scelte, anzi tre, tutte prodotte in Giappone, dunque più abbordabili. Lo Yashica f2.8 della serie economica DSB, di cui non parlavano molto bene. Costava molto poco, ma mi convinceva anche, molto poco. Lo Yashica f2.8 della serie bella, ML.
Oppure lo Zeiss f2.8, unico tele prodotto in Giappone. Li costruiva la Tomyoka, una consociata Yashica. La differenza tra lo Yashica ML e lo Zeiss mi garantivano essere poca. Ma quest’ultimo era un gioiello, anche solo come estetica e come costruzione. Costava il doppio dell’ML, 240K lire, ma alla fine lo scelsi. Obiettivo meraviglioso. Nitido, con ottimi colori e molto corretto. Per almeno un altro anno misi quasi completamente da parte il 50 e mi dedicai al 135mm. Ci facevo tutto quello che facevo prima, tranne i gruppi di persone in interni e alcune scene urbane. Imparai a usarlo molto bene.
Poi fu il tempo del grandangolo. Nei panorami e negli scatti in interni sentivo l’esigenza di un maggiore angolo di campo. Con 110k lire stavolta provai direttamente uno Yashica, il 28/2.8 ML. Un ottimo obiettivo, anche questo. Resa molto vicina agli Zeiss, dicevano.
Al centro andava molto bene. Ai bordi un po’ meno. Ma allora facevo quasi solo dia, che proiettate col calore si deformavano un po’ proprio ai bordi, dunque la cosa si percepiva poco. Ora avevo un corredo serio, molto classico al tempo, 28-50-135.
In breve presi un secondo corpo, una bellissima Yashica FR1. Praticamente una RTS senza il 2000s e i vetrini intercambiabili. Per il resto uguale. Montava gli stessi accessori, come il motore. Dicevano fosse la stessa macchina, un po’ semplificata, ma economicissima. Esposizione automatica con priorità ai diaframmi ed esposizione manuale.
Dicevano, parlavano, si sapeva essere...
Breve parentesi. Quando uso frasi tipo “dicevano, parlavano, si sapeva essere” etc. mi riferisco alle notizie che circolavano al tempo sulle attrezzature fotografiche. Un tempo in cui vigeva assoluta mancanza di qualunque informazione che non fosse scritta su carta o diffusa oralmente. Gli unici mezzi di diffusione diversi, cinema e televisione, erano estremamente generalisti e non parlavano certo di qualità di obiettivi. Le fonti dunque chi erano? Innanzitutto poche, e poi molto discutibili ovviamente. Riportavano impressioni, passa parola, molto spesso solo chiacchiere. Si trattava di riviste del settore. Poi di commercianti, un po’ il centro di raccolta di tutte le opinioni dei loro clienti, tutte da verificare e senza alcuna garanzia di attendibilità. I rappresentanti dei vari importatori, con cui era possibile venire in contatto nei negozi o nelle fiere, ancora più opinabili in quanto ovviamente interessati. Infine gli appassionati, con tutto il carico di emozioni, tifo, preferenze, che si può immaginare.
Ma insomma, alcune valutazioni alla fine convergevano e si consolidavano.
Ogni marchio, ogni pezzo prodotto, corpi macchina, obiettivi, produceva una vulgata che inesorabilmente andava a finire in una determinata casella che ne attestava caratteristiche e qualità.
Poiché puntavo ad avere sempre la massima qualità di immagine possibile, usavo sempre due pellicole diapositive, entrambe a bassa sensibilità.
Agfachrome 50 S, per foto di persone, paesaggi urbani, famiglia. Imparai a comprarne un rullo da 30m, che bobinavo poi personalmente. Ne venivano una 20ina di rullini da 36 pose. E la sviluppavo anche. C’era un economicissimo Kit di sviluppo della stessa Agfa che funzionava a 20°C, praticamente a temperatura ambiente. Nella prima passata mi vennero scarsi i colori e il contrasto, ma poi imparai a mantenere più costante la temperatura e già al secondo sviluppo le dia erano più che soddisfacenti. Poi dovevo intelaiarle. Ma lo facevo solo con le migliori, e così risparmiavo ancora. Mi costavano pochissimo. Tra l’acquisto del rullo da 30m, sviluppo e intelaiatura autonomi, spendevo veramente molto poco.
Kodachrome, 25 o 64 ASA, la migliore pellicola disponibile, però costosa e trattabile solo dalla stessa Kodak. Ne ricordo ancora il prezzo, 5500 lire, sviluppo e intelaiatura compresi, una cifra, 3-4 volte quello che mi costava l’Agfachrome. Con questa facevo i paesaggi naturali, laddove non volevo transigere sulla qualità. Mettevo l’Agfa sulla FR1 e la Kodachrome sulla RTS. Con RTS, FR1 e la triade 28-50-135 avevo raggiunto un livello per me molto buono. I colori delle dia erano bellissimi, e le immagini nitide e secche, veramente appaganti.
Poi, un giorno, il cataclisma. In macchina, aspettavo la mia futura moglie in un parcheggio. Avevo con me la RTS col 135 e una Kodachrome 64. C’erano dei piccoli pini, piantati da poco. Su quello accanto, in piena città, si posò un luì, vicinissimo, sotto i 2m. Fortunatamente avevo già a portata di mano la macchina. Cominciò a muoversi veloce tra i rametti beccando invisibili moscerini. Lo puntavo mettendo a fuoco, ma si muoveva continuamente e non riuscivo mai a scattare (allora, se non si era un minimo sicuri, non si scattava). A un certo punto fece una pausa. Stette fermo forse un secondo. Trattenendo il respiro presi la mira e scattai. Mi fece fare una sola foto. Quando dopo un circa un mese (tanto mi ci volle per lo sviluppo) vidi finalmente quella dia Kodachrome ebbi un colpo. L’uccellino era bellissimo, estremamente nitido, l’occhio vivo, sembrava proprio lì, con gli aghi di pino come sfondo. Sembrava una foto fatta completamente in natura, invece che in un parcheggio in piena città. Provai una soddisfazione mai avuta in fotografia. Capii che volevo fare assolutamente quello. La mia passione cresceva, e con essa la necessità di attrezzature più adeguate, che però da nuove avevano costi stratosferici. Ci volle ancora tempo.
Intanto era arrivata la laurea, l’età adulta, il lavoro e la famiglia, e così il corredo cominciò ad aumentare maggiormente. Per cominciare passai al Distagon 28/2.8. Gran obiettivo, gran colori, molto più nitido ai bordi, nettamente superiore al pur buono Yashica. Dal classico terzetto 28-50-135, estremizzai poi le focali e aggiunsi in basso un magnifico Distagon 18mm f4, un ultragrandangolare al tempo insuperato. Mi dava Kodachrome fantastici, nitidissimi fino ai bordi e praticamente senza distorsione. Quando poi nell’81 arrivarono contemporaneamente due mostri di bellezza e qualità come Planar 100/2 e Sonnar 180/2.8, volli allungare in alto. In attesa di bissare col mitico 100/2, al posto del 135/2.8 cominciai a prendere il bellissimo Olympia Sonnar 180mm f2.8, che diventò il mio obiettivo preferito. All’ennesima occasione poi, ecco il superbo 28/2, un obiettivo stellare al tempo, e con una gran storia su cui torneremo quando sarà pronto il test.
Alla ricerca di un Supertele
Poi fu la volta dei supertele. Purtroppo, come vedremo in seguito, gravissima carenza, Contax non ne produceva, di realistici. Arrivava massimo al 300/4.
Riguardo l’uso dei teleobiettivi più spinti, posto che ancora non ne avevo, ero un po’ intimorito. Alle proiezioni della SICF al Museo di Storia Naturale di Porta Venezia, quando ne parlavano, gli esperti affermavano con convinzione che, superati i 200mm, occorreva senz’altro l’uso del cavalletto, altrimenti, a mano libera, con le pellicole più idonee, tutte a bassa sensibilità, c’era il fondatissimo rischio di incorrere nel mosso e non poter quindi fotografare. Fortunatamente la focale massima che avevo arrivava a 180mm, sotto i 200mm, ed era pure luminosa, f2.8. Dunque mi sentivo autorizzato a non usare il treppiedi. Dato il mio modo preferito di fotografare, girare per le montagne con la macchina fotografica al collo riprendendo quello che capitava, mi chiedevo come avrei fatto con una focale più lunga. Non mi andava di dovermi portare dietro un grosso cavalletto in metallo (quelli al carbonio non esistevano ancora). E poi il cavalletto, per essere efficace, doveva essere il più pesante possibile, predicavano. Fortunatamente, la prima occasione fu un Novoflex follow focus, con messa a fuoco rapida. Un 280mm f5.6, con cui avviai la pratica della caccia fotografica vera e propria
Questi particolarissimi obiettivi, i tedeschi Novoflex, erano ispirati al mitra Sten, e come l’ispiratore, avevano due maniglie e uno spallaccio. Si impugnavano proprio come un mitra. Ne veniva infatti sconsigliato l’uso in zone del mondo con problemi sociali, guerre, etc. Si poteva essere scambiati per guerriglieri e pertanto rischiare di essere presi di mira a fucilate.
Per cui, forte delle tassative indicazioni sull’uso dei tele >200mm fissate dai membri esperti della SICF, iniziai a usare questo sistema con timore e circospezione. Ma, forse perché progettato proprio per l’uso a mano libera, forse per la focale ancora abbastanza corta, 280mm, pur continuando a usare Kodachrome 64, e fotografando in buona luce, foto mosse non ne feci proprio. Nel giro di un anno poi presi il 400/5.6, quello migliore, con ben tre lenti. Compatibilmente con le precauzioni da prendere usando un tele spinto (tempi rapidi, soprattutto), non feci nessuna foto mossa. Lo stesso poi quando presi il 600mm. In sintesi, li usai sempre a mano libera senza problemi. Non mi posi più la regola del cavalletto se non in particolari situazioni. Fotografai sempre con la massima focale disponibile a mano libera. A volte alcune non venivano. Ma il più delle volte era più per una carenza nella messa fuoco, che era la vera bestia nera nella fotografia ai soggetti preferiti, rapaci in volo, e comunque ai grossi uccelli tipo aironi, cicogne, etc.. Seguire un soggetto in rapido movimento dovendo anche mettere a fuoco, non era impossibile. Ma la percentuale di scatti buoni era molto più bassa rispetto a quella agli animali fermi, che venivano quasi sempre bene. Invece nelle foto al volo, veramente buone ne venivano una su 10, o anche su 20, talvolta. O nessuna.
Fotografia naturalistica a go go, dunque, ma senza abbandonare gli altri generi, che comunque mi piacevano molto.
Qualche tempo dopo avevo tre corpi, una RTSII e due 167MT. E un bel po’ di ottiche: 18/4, 28/2, 35/2.8, 50/1.4, 60M, 85/1.4, 100/2, 180/2.8, 300/4, più i 3 Novoflex, due flash TLA 30 ttl con tutti i cavi, e un proiettore finalmente all’altezza, uno Zeiss con ottica di livello e lampada potente. La visione delle diapositive era uno spettacolo.
La mia fotografia, al di là dell’attrezzatura, aveva raggiunto una certa maturità.
L’interesse principale era volto alla fotografia naturalistica. Quando lavoro e famiglia me lo consentivano, natura e montagna erano la mia destinazione preferita. Mi muovevo col Novoflex, 400 o 600, a seconda del target, ma quasi sempre col 600. Inoltre portavo solitamente il 60 macro e i due flash TTL, coi cavi di collegamento al corpo macchina. Quest’ultimo era una Contax 167, una macchina che non amai mai, ma effettivamente molto completa per i miei usi. Motore incorporato da 3 fs. Vetrini intercambiabili. Telecomandabile. Varie modalità di esposizione. Piccola e leggera.
Aveva tutto quello che serviva. Fotografavo soprattutto i rapaci, e tutti gli uccelli cui riuscivo ad avvicinarmi. E poi piccoli animali in macro, paesaggi, e tutto quello che capitava, come contadini nei campi e attività varie, tutte cose ora completamente scomparse.
Oltre alla fotografia naturalistica, quando non potevo praticarla, mi piaceva riprendere scene urbane, passanti, situazioni. A volte prendevo la bicicletta e con la RTS e il 180 al collo e due rullini in tasca, giravo per la città in cerca di scene interessanti, soprattutto ritratti rubati, mi divertivo molto. E poi tutti i generi di foto familiari, cerimonie, etc.. Insomma una fotografia a 360° molto appagante, avevo sempre in mente “qualcosa” da fotografare. Ora si direbbe “un progetto”.
La fruizione era molto soddisfacente. Stampavo qualche foto, a volte. Ma principalmente amavo la diaproiezione. A livello personale, innanzitutto. Le foto di natura non le sviluppavo io, per cui quando ritiravo le diapositive avevo un rituale. Innanzitutto gli davo una sbirciata già in negozio, ma col pessimo contafili che ti davano. A casa poi me le gustavo professionalmente con un ottimo tavolo luminoso e un eccellente lentino loupe della Hoya con una risoluzione altissima. Selezionavo le migliori e le mettevo direttamente nel caricatore dia. Dopodiché, finalmente, piazzavo schermo, proiettore, e via, le facevo scorrere godendomene la visione. Era un momento magico, quello della proiezione finale. Si concludeva un percorso iniziato molto tempo prima, con l’acquisto della pellicola. Poi di solito un viaggio, le escursioni, gli scatti. Il ritorno. La consegna al laboratorio. E infine il ritiro. A volte vedevo le foto dopo oltre un mese dallo scatto.
La visione sul tavolo luminoso aveva i suoi limiti. Il contafili del laboratorio era troppo scarso, forse volutamente. Le foto sembravano migliori di quello che poi risultavano. Con la loupe Hoya, il problema era opposto. Era talmente incisa, da risultare esageratamente critica. Quando la comprai ero molto contento, spaccava effettivamente il capello. Ma chissà quante centinaia di foto buone buttai prima di accorgermi quanto fosse esigente. Diapositive che in proiezione risultavano molto buone, con la visione diretta sembravano di qualità insufficiente. Certo, quelle buone alla visione con la loupe poi erano eccezionali, ma bastava molto meno.
Organizzavo anche serate con familiari e amici per le foto generiche, e altre con amici e conoscenti fotografi per quelle più tecniche.
Infine, le proiezioni alla Società di Caccia Fotografica nelle serate dedicate ai soci, in cui presentavo le più belle e interessanti.
Il top assoluto fu la pubblicazione di due interi servizi di molte pagine a mio nome sulle due riviste più belle del tempo, Tutti Fotografi e Oasis, pagati entrambi profumatamente (allora era così).
Un vero punto d’arrivo, dopo 10 anni di fotografia intensa e con impegno.