Le reflex meccaniche. Intorno agli anni 60, Leica, inventore del piccolo formato, già aveva un nome molto importante nel mondo della fotografia col sistema di fotocamere a telemetro.
Fu allora che fecero il loro ingresso le reflex.
Anche Leitz vi si cimentò. Ne abbiamo già parlato qui https://www.alcedo-photo-art.it/blog/leone-admin/elogio-di-leica . Prime macchine un po’ acerbe e con qualche problema, e via via avanti, fino alla top di gamma SL2mot, una macchina manuale con una meccanica da orologeria svizzera e dal funzionamento perfetto. E ottiche corrispondenti, quasi sempre anche loro al top. Finché si trattava di produzioni opto-meccaniche, Leica era sempre al vertice.
Con prezzi adeguati, ossia salatissimi, a volte tripli, quadrupli e financo decupli rispetto alla concorrenza.
Intanto a livello reflex, la produttività (e l’aggressività commerciale) degli avversari giapponesi cresceva a dismisura.
A partire dai teatri di guerra, i fotoreporter occidentali cominciarono a guardare con estremo interesse la produzione nipponica, Nikon su tutti. Ravvisando anche qui qualità e affidabilità. Situazione classica, fotoreporter, due corpi reflex motorizzati con contorno di obiettivi da usare sul campo. E poi un compatto e silenzioso corpo Leica M con ottica 35mm Summicron, per scatti rubati in situazioni delicate. La cinematografia ha raccontato molto in proposito. Ad esempio il bel “Sotto tiro” di Spottiswoode, con Nolte che fotografa con le Nikon F, ma non manca di portare una silenziosa M per scattare di nascosto.
Ma le cose stavano cambiando e, già con le prime reflex, per vari motivi, Leica, pur vendendo bene, non riusciva a bissare il gradimento avuto a livello professionale con le M. Anche perché, e questo valeva allora e tanto più ora, non è che gli altri fossero fessi e stessero a guardare. Magari un po’ scopiazzando all’inizio (ma proprio all’inizio), presto pareggiarono i conti e alcuni produttori, su determinati prodotti, seppero anche innovare e andare oltre.
Leica, (ovviamente, in campo analogico e manual focus), rimanendo sempre comunque un riferimento in quanto, in ogni modo, in ambito opto-meccanico, reggeva il colpo.
Le reflex elettroniche di Leica. Quando invece diventarono indispensabili l’elettronica (e poi sempre più l’informatica), le cose presero tutt’altra piega. Leitz, Zeiss e un po’ tutta l’industria europea, non disponevano realmente di queste tecnologie. Tantomeno erano in grado di farne una produzione di massa, con tutte le problematiche connesse ai grandi numeri. I tentativi già fatti in passato da Zeiss non promettevano. Dunque venne molto più semplice andare a bussare alla porta di chi le deteneva, queste tecnologie, i giapponesi. E fu così che, impensabile, i teutonici dovettero importare tecnologia.
Pur avendo successo nelle vendite, anche qui il gradimento non fu gran che. Le ottiche continuavano ad essere un riferimento, almeno quelle costruite direttamente in casa. I corpi, invece, realizzati con molti interventi esterni, e sempre con la pretesa di fare nuovi capolavori, un riferimento non lo erano mai, pur costando cifre da capogiro. Anche perché coi cambi di proprietà, a cominciare dagli svizzeri, il sentiment del marchio era profondamente cambiato.
Non più produrre il meglio, quali che fossero i costi, e poi vendere di conseguenza.
Ma, pur producendo bene, risparmiare il più possibile, e massimizzare i profitti.
La cosa fu subito chiara con la prima fotocamera nata dalla collaborazione con Minolta, uno dei migliori costruttori nipponici. In Leitz, una volta acclarato che non si possedeva la tecnologia necessaria, non fu scelto infatti di trasferire sulla prima reflex Leica elettronica i contenuti del modello top di Minolta, la eccezionale XM. Ciò che ovviamente avrebbe avuto costi maggiori. Si optò invece per la più economica XE-1.
Una discreta macchinetta amatoriale, non certo di stampo professionale come la XM.
Il risultato fu la Leica R3, un’altra macchinetta, discreta, ma assolutamente niente di che, ben lontana dalla filosofia originaria Leitz.
Stessa somiglianza tra Minolta XD-7 e Leica R4-5-6-7 e varianti.
Insomma, dalla Leica R3 del 1976, e con in mezzo altri cambi di proprietà, prima di avere una reflex automatica realmente all’altezza, con elevate prestazioni e sufficiente affidabilità, bisognerà aspettare il canto del cigno di Leica, ossia l’ultima reflex prodotta, la R9 del 2002, ben 25 e più anni dopo.
Tutte le altre si possono considerare buone macchine, ma assolutamente non originali e all’altezza della produzione Leica M (telemetro) o Leicaflex (reflex). E nulla di più delle concorrenti, che anzi spesso erano molto meglio.
Discorso un po’ a parte per le R6, meccaniche con poca elettronica, dunque un po’ più affidabili. Comunque anche loro macchinette, di certo non paragonabili alle precedenti meccaniche costruite da Leica, M o R che fossero.
Due frasi, dette a mezza bocca, ascoltate tra un gruppetto di superpatiti leicisti.
“La cosa veramente Leica di queste macchine elettroniche, R3, R4, R5, R6, R7 e varianti, è una sola, il prezzo.”
“Le reflex elettroniche Leica sono semplicemente lo scotto da pagare per utilizzare le ottiche Leica R.”
Intendiamoci, a volte queste macchinette, almeno sulla carta, non erano male.
E se riuscivano bene, assolvevano il compito per cui erano nate, ossia esaltare le ottiche Leitz, soprattutto quelle prodotte realmente da Leitz.
Ma perfino la R8, che doveva essere la reflex elettronica del riscatto, ebbe i suoi problemi, al punto che nel modello successivo, praticamente uguale, con piccole migliorie e qualche magagna risolta, non vollero nemmeno replicare il nome, tipo R8 markII o altro, ma lo cambiarono proprio in R9, questa sì veramente ottima.
Una macchina, per gli standard Leica, veramente innovativa e funzionale.
Perché allora fu “il canto del cigno” delle reflex Leica?
Già detto prima. Perché gli altri non erano fessi e non stavano a guardare.
Quando Leica produsse finalmente una reflex elettronica adeguata, ma sempre manual focus, cioè negli anni 2000 passati, gli altri nel frattempo erano non solo alla terza o quarta generazione autofocus, ma addirittura non producevano più fotocamere a pellicola, essendo passati (quando Leica nel 2009 chiuse il sistema R) da una decina d’anni al digitale. E, per giunta a prezzo inferiore, offrivano macchine medie con, almeno se non più, le stesse caratteristiche e la stessa qualità costruttiva. Mentre le top di gamma super pro erano sicuramente superiori.
Con in più la fondamentale funzione af. E il digitale.
Per cui quando nel 2009 era il tempo di buttar fuori un nuovo modello R, magari digitale, invece Leica, nel mondo reflex, gettò per sempre la spugna, sconcertando non poco una vasta platea di utilizzatori che l’apprezzavano, tra cui chi scrive. Avrebbero potuto fare, a suo tempo, come Nikon e Pentax, ad esempio.
Un corpo af con baionetta R e 3-4 ottiche af, per cominciare. Così chi aveva un bel corredo poteva continuare a utilizzarlo, prendere un corpo af e man mano aggiornare gli obiettivi.
Mica lo dovevano fare loro, che ovviamente non possedevano questa tecnologia. Se lo facevano fare, come avevano fatto fino a quel momento per tutte le reflex elettroniche. Dalla stessa Minolta, ad esempio, con cui avevano già collaborato alla grande, e cui non mancava certo la tecnologia af, anzi, negli anni 90 ne aveva da vendere.
Immagino una fantastica Leica R af, derivata da una qualunque delle eccellenti professionali Minolta degli anni 80-90 la 9000af o le successiva Dinax 9xi e Dinax 9, con obiettivi Leitz af con attacco R. Continuando a usare le ottiche ottiche manuali Leica R e in più le nuove R af.
Gli appassionati del sistema R avrebbero accettato di buon grado questo passaggio, anzi sarebbero stati grati a Leica per non aver fatto perdere valore alle proprie costosissime attrezzature. E avrebbero potuto andare avanti altri 30 anni, come gli altri.
La fine del mito “made in germany”. Con l’introduzione delle reflex elettroniche, Leitz (ma anche Zeiss), pur riuscendo dunque, ancora per oltre un decennio, ad ammantare i prodotti tedeschi di quell’aura da prodotto eccelso e superiore, decretarono, in realtà, la fine del mito “made in germany”. Fino ad allora infatti, almeno in ambito fotografico, questo marchio era un paradigma che decretava automaticamente e in assoluto la superiorità di quel determinato prodotto rispetto a tutti gli altri prodotti omologhi, costruiti in ogni altra parte del mondo. Da quel momento invece fu chiaro che, in nome del risparmio e dell’aumento dei profitti, tutto poteva andar bene. E che progettisti, maestranze, tecnologie non tedeschi, ma di qualunque altra parte del mondo industrializzato, se ben assortiti e diretti, erano in grado di produrre manufatti altamente tecnologici di livello almeno pari a Leica, talvolta anche superiore.
Anzi, significava anche addirittura che il “made in germany” non era più all’avanguardia nella tecnica in quanto non in possesso di determinate tecnologie, le più moderne e avanzate.
Un vero shock. II “made in germany” non era più in grado di produrre le migliori macchine fotografiche esistenti.
Pur avendo tentato l’uso di tecnologie elettroniche in proprio. Ben prima infatti, già negli anni 60, la Zeiss Ikon aveva prodotto la Contarex electronic, una importante reflex con esposizione automatica a priorità di diaframma.
Ma i tempi non erano maturi, l’operazione Contarex non diede i frutti sperati e ad un certo punto Zeiss la cassò completamente.
I giapponesi, dal canto loro, fecero senz’altro tesoro dell’esperienza Contarex, errori compresi, e non li ripeterono, ottenendo il successo che sappiamo.
In sintesi, l’industrializzazione su vasta scala, la produzione di attrezzature in grandi numeri, la fondamentale elettronica, non furono mai nelle corde dei teutonici, che sapevano produrre bene ottica e meccanica, ma solo per pochi.
E solo a prezzi esagerati, ovviamente: nel 1978, la Olympus OM2, che era la fotocamera automatica tecnicamente più avanzata del momento, costava 450mila lire. L’onesta Minolta X-E1, 390mila lire.
La Leica R3, niente altro che una amatoriale Minolta X-E1 riveduta e corretta, veniva venduta addirittura a un milione e mezzo di lire, ben quattro volte tanto.